La sfida delle competenze chiave al tempo delle MACCHINE INTELLIGENTI
di Mauro De Filippo
17 giugno 2024
di Mauro De Filippo
17 giugno 2024
Nel corso del gradito incontro dello scorso lunedì 17 giugno, presso Dumbo a Bologna, ho avuto modo di parlare di un tema che mi affascina da tanti anni, per ragioni anche professionali, ma soprattutto personali.
Di seguito vi propongo il ragionamento che mi proponevo di sviluppare nel mio intervento, toccato solo in parte, che ha riguardato la natura e i processi dell’apprendimento e la loro intima relazione con l’esigenza di raggiungere benessere attribuendo senso alla propria esistenza oltre che professionalità da spendere sul lavoro.
Inizierei definendo un comune campo di gioco di definizioni e concetti.
Prima di tutto potremmo condividere l’assunto che ogni vita ha due componenti che la fondano: la personalità fondamentale e le esperienze vissute… e che queste due componenti si fondono nel tempo generando pensieri e comportamenti, cioè vita individuale vissuta, soggettiva e fino a prova contraria irripetibile.
Le manifestazioni attuali della personalità potremmo chiamarle attitudini cioè modi di essere attuali, inclinazioni, volontà, desideri, motivazioni… e le manifestazioni delle esperienze le possiamo chiamare proprio competenze, cioè cose che sappiamo e che sappiamo fare.
Per semplicità possiamo condividere l’idea che le attitudini riguardino l’essenza di ogni persona, cioè la sua soggettività, mentre le competenze riguardano le esperienze maturate e quindi l’oggetto, altro da sé, che il soggetto ha fuso e introiettato nella sua attualità.
E infine... che le attitudini e le competenze acquisite cambiano nel tempo influenzandosi reciprocamente. Per esempio, apprendiamo competenze in funzione delle nostre attitudini e modifichiamo le nostre attitudini come conseguenza di ciò che progressivamente apprendiamo.
Le diverse teorie dei tipi psicologici e il progresso delle neuroscienze potrebbero permetterci da tempo di approssimare lo studio delle attitudini, cioè il modo di essere delle singole persone a partire dalla loro personalità (vi ho accennato alla teoria Junghiana in proposito, sulla base della quale si sono sviluppati i test di personalità di Myers-Briggs, ma ce ne sono altre). Con un po’ di aiuto ognuno può approcciare almeno a grandi linee le nozioni che sono alla base dei processi di elementari della logica e della chimica del proprio comportamento e affrontare il passo successivo, inevitabile, di provare a riempire di significato la propria esistenza. Comunque è ancora un percorso di orientamento tutt’altro che facile da seguire. Per me sarebbe interessante parlarne in un prossimo incontro.
Probabilmente (dico io) in un prossimo futuro gli avanzamenti delle neuroscienze o della psicologia analitica (e di qualche imprenditore digitale) permetteranno di semplificare questo processo di emersione offrendo strumenti per affrontarlo in autonomia, senza intermediari o facilitatori, ma nel frattempo continuiamo, invece a chiamare questo processo di emersione di consapevolezza con il termine di educazione riferendolo ad esperienze quasi mai strutturate, spesso un po’ casuali, di incontro/confronto del singolo con insegnanti e compagni di scuola, parrocchie, sport, scout e altre più occasionali dalla prima infanzia in avanti.
La scuola Italiana, in particolare, ha visto radicalmente ridotto il mandato di lavorare sull’educazione, essendo prevalentemente indirizzata alla pubblica istruzione, ma educa comunque, indirettamente soprattutto attraverso le competenze dell’area dei linguaggi, cioè insegnando a leggere e scrivere e mediando quindi l’apprendimento di tutte le discipline, attraverso le parole e i segni appunto. Un limite di questo approccio è che le discipline che avrebbero bisogno di altri canali di apprendimento semplicemente le svalutiamo (basti pensare alla scienza, la chimica, la fisica, l’arte figurativa...e tante altre). Ma se possibile c’è anche di peggio.
Il ruolo dell’educazione è proprio quello di offrire l’esperienza e conoscenza dell’altro, di modo che la persona abbia modo di far emergere e realizzare la propria personalità per confronto e similitudine o contrapposizione. Ma se questo avviene solo o prevalentemente attraverso il canale dei segni (delle regole, delle storie, dei teoremi, delle formule, di lunghe sequenze di equazioni da risolvere…) è chiaro che si taglia fuori tutta l’esperienza sensoriale. Così facendo si perdono tutte le diverse personalità che non si trovano tanto a loro agio con quel canale astratto, persone che hanno i sensi che concretamente spaziano, le mani che saprebbero fare, la logica che amerebbe svilupparsi per immagini invece che per simboli.
E quelle persone tagliate fuori, perché non sono nate per stare dietro un banco per ore immerse nei segni finiscono per essere targate come incapaci di apprendere e pronte a lavorare già poco più che adolescenti. Da quel momento rischiano che nessuno più si occupi di relazionarsi in termini educativi con loro.
Se non offriamo mai a quelle persone l’esperienza vocazionale in grado di accendere la sua lampadina, se non gliele proponiamo al momento giusto, può essere che quelle persone non la incontreranno mai più nella vita e la loro attitudine verso l’esistenza conserverà una linea di inconsapevole malinconia, non realizzazione, incompiutezza, insensatezza… e può essere che quelle persone non esprimeranno mai qualcosa di proprio. Questo fenomeno è più comune di quanto si pensi e coinvolge anche e soprattutto direi le personalità adattive che questa scuola se la sono fatta andare bene fino in fondo.
Alla scuola, come detto, è stato sottratto progressivamente il ruolo di agenzia educativa e lasciato solo la funzione di pubblica istruzione, finalizzata cioè a mettere in condizioni lo studente di eseguire compiti. Cioè fondamentalmente finalizzata a costruire non persone, ma illusoriamente buoni cittadini e lavoratori, che però agiscono in funzione di compiti impartiti, con poco o pochissimo protagonismo e che non disturbano troppo.
Quegli studenti che anche noi siamo stati, replicano nel mondo degli adulti gli stessi schemi appresi a scuola, prima di tutto nel mondo del lavoro, contando sul presupposto di avere sempre a disposizione un professore-capo che assegni loro compiti da portare a termine (o da provare a scansare).
Ora, magari questo meccanismo sarà stato anche congeniale per la società e per il lavoro del passato (altrimenti perché?!), ma la domanda nuova oggi è: siamo sicuri che in futuro ci saranno ancora i compiti per i quali sono stati preparati questi studenti, compresi noi diversamente giovani?
Oggi tutti sappiamo che è in corso la rivoluzione tecnologica digitale che, per altro, ha già invaso la nostra vita privata quotidiana, con i social network a disposizione degli smartphone, con le app di accesso a qualsiasi servizio e che ha anche trasformato il modo in cui lavoriamo e sempre più lo cambierà, il lavoro.
Sappiamo che in molti casi i lavori che svolgiamo non ci saranno più perché quei compiti che oggi ancora eseguiamo, seguendo istruzioni, saranno svolti da (quelle che genericamente possiamo definire) macchine intelligenti. I processi spesso disordinati nei quali oggi lavoriamo, frutto dell’entropia e dell’esigenza di affermazione di sé di dirigenti e funzionari autoreferenziali, saranno semplificati appositamente per essere svolti da macchine.
Prima di tutto sento che la rivoluzione digitale intelligente sta mettendo alla prova i singoli come persone. Tutti noi siamo quotidianamente di fronte al fatto compiuto: usiamo tecnologia sempre più intelligente che sa cosa ci piace, ci propone acquisti, interpreta le nostre esigenze quando la interroghiamo, svolge compiti complessi, non solo complicati, che non riusciremmo mai ad emulare. Quanto meno perché dobbiamo ammettere di non poter competere con le macchine in termini spazio di accumulazione dati e potenza di elaborazione. E tutti ci dicono che questo è solo l’inizio perché presto la tecnologia si espanderà sempre più nella vita fisica attraverso macchine che ci assomiglieranno sempre di più, superando i nostri limiti.
La rivoluzione digitale ci sta mettendo alla prova, a mio avviso in primo luogo in forma inconscia. Come se dentro di noi da tempo ci fosse un rimuginamento collettivo, su queste domande esistenziali che vi propongo:
“in definitiva in cosa consiste la mia umanità, io cosa sono? Se le macchine fanno tutto questo di cui mi sono occupato fino ad ora e sempre meglio, allora io cosa sono? Non sono forse allora solo una macchina anche io? E mi devo forse intendere una macchina antiquata? Che non vale più la pena di riprodurre?”
Se ammettiamo che l’umanità non sia da buttare, se siamo convinti che non sia macchina antiquata allora dobbiamo imparare a valorizzarla per quelle che sono le sue eccellenze, ordinarie e comuni eccellenze, che l’hanno fatta emergere nell’evoluzione naturale e che vale più delle nuove macchine intelligenti. Questo prima di tutto imparando a ridefinire l’umanità sia in termini oggettivi (l’essere umani nel suo complesso) che in termini soggettivi (chi sono io e in cosa sono unico).
Quindi dobbiamo lavorare sull’educazione al quadrato, non solo per fare emergere nel singolo la più compiuta consapevolezza di sé come singola persona, ma anche e forse soprattutto, per fare emergere negli umani la loro compiuta consapevolezza di genere, che comporti le dimensioni del collettivo di tutti i caratteri che ci uniscono, anziché differenziarci l’uno dall’altro.
Dovremmo comprendere che conteremo sempre meno per la capacità di eseguire compiti che hanno già le loro istruzioni da seguire e sempre più per la capacità di inventare domande e soluzioni, cioè per creare domande anche prima che soluzioni. Questo è il risultato di una buona educazione.
Alla luce di quanto sopra si possono a mio avviso leggere o rileggere le raccomandazioni illuminanti del Consiglio Europeo del 2018 di cui abbiamo pure accennato nell’incontro sulle competenze chiave:
“Le competenze chiave sono (le conoscenze e le abilità - ndr) di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personali, l’occupabilità, l’inclusione sociale, uno stile di vita sostenibile, una vita fruttuosa in società pacifiche, una gestione della vita attenta alla salute e la cittadinanza attiva. Esse si sviluppano in una prospettiva di apprendimento permanente, dalla prima infanzia a tutta la vita adulta, mediante l’apprendimento formale, non formale e informale in tutti i contesti, compresi la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro, il vicinato e altre comunità. Le competenze chiave sono considerate tutte di pari importanza; ognuna di esse contribuisce a una vita fruttuosa nella società. Le competenze possono essere applicate in molti contesti differenti e in combinazioni diverse. Esse si sovrappongono e sono interconnesse; gli aspetti essenziali per un determinato ambito favoriscono le competenze in un altro. Elementi quali il pensiero critico, la risoluzione di problemi, il lavoro di squadra, le abilità comunicative e negoziali, le abilità analitiche, la creatività e le abilità interculturali sottendono a tutte le competenze chiave.”
A mio avviso i caratteri distintivi che ci distinguono dalle macchine intelligenti, sono condensate nelle competenze chiave che tutti dobbiamo essere in grado di coltivare. Le ricordiamo di seguito:
Competenza alfabetica funzionale: Si concretizza nella piena capacità di comunicare, sia in forma orale che scritta, nella propria lingua, adattando il proprio registro ai contesti e alle situazioni. Fanno parte di questa competenza anche il pensiero critico e la capacità di valutazione della realtà.
Competenza multilinguistica: Prevede la conoscenza del vocabolario di lingue diverse dalla propria, con conseguente abilità nel comunicare sia oralmente che in forma scritta. Infine, fa parte di questa competenza anche l'abilità di inserirsi in contesti socio-culturali diversi dal proprio.
Competenza matematica e competenza in scienze, tecnologie e ingegneria: Le competenze matematiche considerate indispensabili sono quelle che permettono di risolvere i problemi legati alla quotidianità. Quelle in campo scientifico e tecnologico, invece, si risolvono nella capacità di comprendere le leggi naturali di base che regolano la vita sulla terra.
Competenza digitale: È la competenza propria di chi sa utilizzare con dimestichezza le nuove tecnologie, con finalità di istruzione, formazione e lavoro. A titolo esemplificativo, fanno parte di questa competenza: l'alfabetizzazione informatica, la sicurezza online, la creazione di contenuti digitali.
Competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare: È la capacità di organizzare le informazioni e il tempo, di gestire il proprio percorso di formazione e carriera. Vi rientra, però, anche la spinta a inserire il proprio contributo nei contesti in cui si è chiamati ad intervenire, così come l'abilità di riflettere su se stessi e di autoregolamentarsi.
Competenza in materia di cittadinanza: Ognuno deve possedere le skill che gli consentono di agire da cittadino consapevole e responsabile, partecipando appieno alla vita sociale e politica del proprio paese.
Competenza imprenditoriale: La competenza imprenditoriale si traduce nella capacità creativa di chi sa analizzare la realtà e trovare soluzioni per problemi complessi, utilizzando l'immaginazione, il pensiero strategico, la riflessione critica.
Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali: In questa particolare competenza rientrano sia la conoscenza del patrimonio culturale (a diversi livelli) sia la capacità di mettere in connessione i singoli elementi che lo compongono, rintracciando le influenze reciproche.
Dunque la mia tesi è che: dovremmo dare seriamente seguito a queste raccomandazioni promuovendo le competenze chiave (non solo il digitale di cui tutti parlano), prioritariamente rispetto a qualsiasi altra competenza tecnica professionale o curriculare scolastica, anche nei confronti degli adulti, nessuno escluso, mettendo al centro l’apprendimento e quindi valorizzando le differenze delle attitudini personali dei singoli.
Anche le “academy aziendali” o comunque i singoli datori di lavoro potrebbero promuovere le competenze chiave? Perché no?! Certo, la formazione sul lavoro o al lavoro punta per definizione soprattutto a competenze mirate a compiti immediatamente operativi, ma aumenta sempre di più la consapevolezza nei datori di lavoro e negli esperti di placement che ciò che più manca ai candidati lavoratori è la professionalità, la capacità di concentrazione, la capacità di organizzazione, la puntualità, la capacità di iniziativa, la capacità di prendersi qualche rischio…. tutti elementi che hanno a che fare con le attitudini, cioè con la personalità attuale e non invece con quante nozioni o abilità tecniche abbiano collezionato quei lavoratori nel tempo.
E’ dunque fondamentale provare a toccare competenze educative chiave anche nei confronti degli lavoratori giovani o adulti che siano nella formazione professionale e sul lavoro.
Ovviamente il ruolo prevalente in questo senso dovrebbe essere svolto dall’istruzione e della formazione professionale pubblica. Tuttavia, per questo obiettivo sarebbe necessario che tutti gli attori dei sistemi facciano un importante passo indietro, prima di tutto rinunciando a qualcosa di quegli straordinari elenchi di pretese che sono i programmi scolastici e formativi di ogni disciplina. E servirebbe soprattutto un movimento di pensiero in grado di influenzare le coscienze della generalità delle persone… e che ognuno dia il suo contributo.
Partendo dal presupposto che quella cosa lì, formare sulle competenze chiave, nessuno lo sa ancora fare veramente, quindi tocca imparare anche quello. Non basta dire alla prof. di matematica di occuparsi anche della competenza chiave n.3, quando poi lei comunque è angosciata dal dover coprire tutto il programma ministeriale e dovrà invariantemente bombardare gli studenti con lunghissime disequazioni di grado n, che nessuno ne ha mai vista una nella vita reale (che poi fuori dalla scuola si pensano iniziative sulle discipline STEM).
Tocca imparare a farlo in modo diverso con i bambini, con gli adolescenti, con gli adulti e con i lavoratori.Tocca rivedere l’idea per cui la scuola e la formazione si fanno solo con risorse umane e bisogna investire in materiali e laboratori, esperienze sensoriali il più possibili lontane dai banchi e quindi più complete e quindi più inclusive.
Posso sbagliarmi certo, ma la mia previsione, pure esposta nell’incontro, è che senza un consistente investimento pubblico (attualmente improbabile) il fabbisogno di lavorare sulle competenze chiave farà sviluppare i ruoli formalizzati con una etichetta dell’antico istitutore (mentor o coach colto) in grado di orientare e personalizzare l’apprendimento tagliato su misura per il singolo, in agenzie extra-scolastiche, extra-corsuali. Per me questa sarà la prevedibile risposta di chi vorrà continuare ad offrire un vantaggio competitivo al proprio rampollo o delfino. Nulla di tanto male, di sicuro sarà molto costoso… e iniquo per chi non potrà permetterselo.
Magari però mi sbaglio e la scuola e la formazione professionale riusciranno invece ad operare un profondo cambiamento rivolto alla generalità delle persone e non solo per pochi fortunati. Magari saranno costretti a farlo e forse c’è da augurarselo perché come noto sappiamo dare il meglio soprattutto nel momento del bisogno o dell’emergenza.
A presto. Anche spero per parlarne ancora insieme.
Monteacuto Vallese 28 giugno 2024
Mauro De Filippo